Questa settimana compio gli anni e perciò forse mi si perdonerà l'indugiare su questioni autobiografiche per allargare il discorso a qualcosa di più generale. In questo blog si parla tanto di memoria e identità, ma raramente della mia biografia personale. Eppure la ricorrenza di oggi mi sembra un buon pretesto per rimediare alla questione.
Oggi vorrei parlare di Europa. Ma non in maniera distaccata, vorrei parlarne in modo profondamente personale. Perché, ben prima che nascesse la cosiddetta generazione Erasmus, sono nata io, figlia d'Europa. Perché, nonostante io faccia parte esattamente della generazione Erasmus, il mio viaggio internazionale era già cominciato, e proprio attraverso le strade che uniscono i punti tra il Nord e il Sud d'Europa.
Mia madre era mezza italiana e mezza lussemburghese. Perché i genitori paterni di suo padre, cioè i miei bisnonni, erano emigrati al Nord dal Piemonte, per cercare lavoro, ricchezza, possibilità nuove in un altro Paese, che nel primo Dopoguerra non poteva essere l'Italia. E si fermarono in Benelux, dove parevano esserci più possibilità per loro. Mio nonno faceva il parrucchiere, e si dice che Romi Schneider, quando non era a Parigi, apprezzasse così tanto le su capacità di acconciatore, che quando si trovava in zona i capelli se li faceva sempre curare da lui. Mio nonno e mia nonna ebbero una sola figlia, mia madre. E mia madre dette vita a due figlie, che oggi vivono stabilmente a Lussemburgo, prima di cambiare vita e finire i suoi giorni in Italia, avendo prima creato con mio padre, trentino e italianissimo, una nuova famiglia, cioè dando la vita a me.
Quando nacqui io, all'inizio degli anni'80, l'Europa non c'era ancora. Geograficamente, sì, ma non politicamente. Pare che io avessi una gran voglia di vedere il mondo, perché nacqui prematura di un mese, e ciò che tutti i miei parenti bonariamente ancora mi rinfacciano è che la mia nascita in quel momento scombinò i piani di tutti. Mia nonna era in Svizzera in vacanza e aveva pianificato ancora qualche giorno in montagna prima di accorrere a vedermi in maggio. Le mie sorelle, che erano ancora delle bambine, erano disseminate in Europa perché prima della mia nascita avrebbe dovuto esserci tempo. Ma io venni al mondo all'inizio di aprile, e quando la vita accade mica ci puoi fare nulla.
Deve essere stato un grande stress - soprattutto per la più giovane delle mie sorelle, che tra l'altro proprio in quei giorni ebbe un attacco di appendicite - quell'annuncio in tempi in cui il mezzo più veloce per viaggiare erano i treni e le automobili. Un sacco di persone vennero scomodate dai quattro cantoni d'Europa per salutarmi, percorrendo ciascuno mille chilometri di strada, e alla chetichella attraversarono tanti confini per raggiungermi oltre le Alpi. Io mica me lo ricordo, ma mi è stato raccontato. Mi viene sempre da sorridere quando penso a questa scena, perché, senza sembrare irrispettosa, mi sembra una versione moderna della natività. Un bambino nasce e non sa nulla di nulla, ma per salutarlo tutti i suoi cari attraversano il mondo da punti diversi, ritrovandosi davanti a questo piccolo rumoroso miracolo.
Il punto è che per me l'Europa era già unita prima che lo fosse ufficialmente. Lo era perché io porto l'Europa nel mio DNA, nelle lingue diverse che conosco - basti pensare che la mia lingua madre non è mica l'Italiano, tant'è vero che, nonostante la mia mamma sia morta quando ero una bambina, io il Lussemburghese lo parlo ancora, anche se ormai non tanto bene. Ricordo le notti di viaggio verso Lussemburgo, in macchina mentre i miei genitori pensavano che io dormissi, attraversando dogane e confini. Ricordo che una volta, avrò avuto cinque anni, al confine con la Svizzera - che c'è ancora - mi misi a urlare come un ossesso, e la mia mamma mi guardò spaventatissima: gli adulti davanti avevano detto «guarda, siamo a Chiasso», e io di fronte alla parola chiasso pensai che fare rumore fosse la cosa più appropriata. Cose da bambini, certo. Però quel confine, e la ramanzina che mi meritai in seguito alle mie urla, mica me le posso dimenticare. Alle altre dogane lungo il viaggio mi abituai a stare zitta. Ma mi ricordo bene quelle lunghe attese, e mi ricordo i controlli, anche se ero piccolissima. Mi annoiavo a morte durante quei lunghi viaggi.
La distanza tra le mie due Patrie - l'Italia, che poi sarebbe diventata, oltre che il luogo in cui vivo, anche la mia patria culturale d'elezione; e il Lussemburgo, che mi porto dentro come un gioiello fiammingo che non posso fare a meno di sentire radicato in me - io la avverto nei chilometri affrontati decine di volte in automobile durante quegli anni, nei confini attraversati ormai così familiari (Austria, Germania, Francia, Belgio, solo per dirne alcuni), non certo per ragioni culturali: siamo tutti fratelli, cugini, figli di una stessa storia, che è quella della vecchia Europa. E mentre per me questo è così chiaro, mi accorgo che, soprattutto in questo periodo di crisi economica, e di abdicazione della politica a istanze meramente finanziarie, troppo spesso molte persone questa cosa se la dimenticano. E io per questo un po' ci sto male, ma proprio personalmente, lo giuro. Tanto il concetto di Europa è radicato in me.
Oggi siamo abituati a un'Europa senza confini, dogane e controlli. Oggi ci sembra normale prendere un aereo per Berlino, ci sembra ovvio che Parigi sia meta di un weekend o che non ci siano dazi sulle merci o guerre tra Paesi confinanti. Consideriamo questi diritti acquisiti e abbiamo smesso di porre attenzione ai racconti dei nostri nonni, che della loro gioventù ci raccontano uno scenario del tutto diverso. Valichiamo le Alpi senza porci il problema di quale enorme gesto sia quest'operazione semplicissima, che un tempo richiedeva tanta fatica in più. Ma, anche se all'inizio degli anni '80 ero una bambina piccola, e certo neppure io ho mai visto la guerra, e per fortuna, io quella fatica me la ricordo, se non altro perché quando ci si fermava per stare in coda alla dogana mi veniva sempre il mal di macchina. Oggi, quando mi capita di andare in Austria, non mi viene più. E non voglio correre il rischio di dare per scontato tutto questo perché mi sono dimenticata dei tempi in cui l'Europa era geopoliticamente qualcosa di diverso.
Quelli che oggi sono per noi diritti acquisiti ci si è messo centinaia d'anni a raggiungerli, eppure basta una giornata referendaria per mandare tutto a monte. E non dico che scegliere una strada o l'altra sia a priori giusto o sbagliato: semplicemente mi sembra inconcepibile prendere una strada, in un verso o nell'altro, armati solo di memoria a breve termine, nel segno della nostra insoddisfazione contingente. Per cosa sono morti allora i compagni d'arme dei nostri padri, dei nostri nonni, se non per darci la possibilità di vivere in un mondo migliore? E non è meglio pensare di risolvere i problemi di questo mondo che è già migliore, rispetto a settant'anni fa e almeno per i popoli Europei, invece di buttare via tutto nel nome di una fase politicamente ed economicamente mal gestita? Veramente la nostra capacità di cambiare il mondo e di lasciare un segno può attuarsi solo attraverso lo smantellamento di quanto ci ha permesso, nonostante tutto, di vivere la più lunga epoca di pace che l'Europa abbia mai vissuto?
Questa settimana compio gli anni e so che la mia identità è, tra le tante sfaccettature che mi contraddistinguono, profondamente Europea. Se è vero che dopo una certa età si tende a smettere di festeggiare, credo che invece questa parte di me vada celebrata. Cerco di non dimenticare da dove provengo. Ovvero, da un continente che, nel male e nel bene, amo moltissimo e che mi appartiene come tutto ciò che ha costruito la mia identità.
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