«Nella primavera del 1921 vennero installate a Praga due macchine fotografiche automatiche – una recente invenzione straniera – che riproducevano su un unico foglio sei o dieci o più pose di una medesima persona. Quando portai a Kafka una di queste serie di fotografie gli dissi allegramente: "Per un paio di corone ci si può far fotografare da ogni angolazione. Questo apparecchio è un Conosci-te-stesso meccanico". "Di’ piuttosto un Non-conosci-te-stesso", disse Kafka con un sorrisetto. Io protestai. "Cosa intendi dire? La macchina non può mentire". "Chi te l’ha detto?". Kafka piegò la testa su una spalla. "La fotografia concentra la nostra attenzione sulla superficie. Di conseguenza abbuia la vita nascosta che balugina attraverso i contorni delle cose come un gioco di luci e ombre. E questa non si può coglierla neanche con il più penetrante degli obiettivi. Si può solo cercarla a tastoni… Questa macchina automatica non moltiplica gli occhi degli uomini, dà soltanto una visione a volo d’uccello incredibilmente semplificata"».
Gustav Janouch
Conversazioni con Kafka*
L’invenzione della fotografia costituisce la realizzazione di un sogno antico, a lungo perseguito da molti artisti. Le prime ricerche su questa forma di “prospettiva automatica” risalgono al XVIII secolo, quando il progresso scientifico consentì la messa a punto delle prime camere oscure, strumento diffuso fra i vedutisti veneti (basti pensare al Canaletto, che utilizzò la camera oscura per rilevare la struttura prospettica delle sue vedute veneziane); essi se ne servivano per lo studio della prospettiva e per la riproduzione fedele, sino nei più minuti particolari, degli oggetti naturali.
La camera ottica consisteva di una cassetta di legno larga circa quaranta centimetri, dotata frontalmente di un sistema mobile di lenti (che già al tempo era chiamato obiettivo) che, una volta puntato sul soggetto, lo rifletteva su uno specchio interno inclinato di quarantacinque gradi; l’immagine capovolta veniva proiettata su d'un vetro smerigliato. Ponendo un foglio di carta lucida sul vetro e coprendosi con un panno per attenuare i riverberi della luce esterna, era possibile ricalcare attraverso la trasparenza l’immagine prospettica, ricavandone una rappresentazione perfetta.
Rappresentazione di una camera ottica
La camera ottica aveva però un limite, ossia la necessità dell’intervento manuale. Nei primi decenni dell’Ottocento il progresso della chimica consentì di sviluppare gli studi sulla sensibilità alla luce di determinati materiali che, se opportunamente esposti e trattati, permettevano di registrare qualsiasi variazione di luminosità. Il vetro fu dunque di lì a poco sostituito da una lastra su cui si spalmava una sostanza sensibile alla luce: col risultato di ottenere, sulla lastra stessa, un’impronta permanente dell’immagine proiettata dall’obiettivo.
Nel 1827, il francese Joseph Nicéphore Niépce, realizzò la prima ripresa fotografica. Egli aveva perfezionato la camera ottica sostituendo la lastra di vetro smerigliato con una di peltro - ovvero una lega metallica simile all’argento costituita da stagno misto a piombo, antimonio e una bassa percentuale d’argento - di 165x205 millimetri, resa sensibile alla luce da un’emulsione a base di bitume. La sua fotografia, la cui esposizione richiese ben otto ore, rappresenta il primo esempio di ripresa diretta dal vero senza alcun intervento umano.
La più antica fotografia a oggi conservata, realizzata dopo otto ore di esposizione da Joseph Nicéphore Niépce (fotografia su peltro del 1826 realizzata con una camera ottica)
Nel 1838, Louis-Jacques Mandé Daguerre, brevettò una forma di rappresentazione fotografica che avrebbe preso il suo nome: la dagherrotipia. Essa consisteva nell’impressione con la luce, in una camera oscura, di una lastra di rame argentata trattata con vapori di iodio. Grazie a questo trattamento, sulla lastra rimaneva impresso il negativo della scena ripresa. Con l’impiego di sali di mercurio il negativo si trasformava in positivo: e così si ottenne il dagherrotipo, un originale unico e non riproducibile.
A questo punto occorreva trovare il metodo per produrre negativi durevoli e riutilizzabili, in modo da ottenere copie successive di una stessa immagine, secondo il meccanismo ancor oggi in uso (per chi ancora si serve di pellicola: perché nell'epoca del digitale, ovviamente, per la maggior parte dei fotografi non ci sono più pellicole da svillupare!). Nel frattempo, in Inghilterra, Henry Fox Talbot, all’oscuro delle esperienze di Daguerre, stava portando avanti le ricerche sulle sostanze fotosensibili; egli utilizzava come supporto carta fotosensibile, che gli consentì di pervenire all’invenzione di un negativo dal quale poter trarre innumerevoli copie.
Nel 1877 l’anglo americano Edward Muybridge eseguì la prima serie di fotografie di soggetti in movimento, base per quelli che sarebbero stati gli sviluppi nell’ambito della cinematografia. Nel 1888, infine, venne commercializzato negli Stati Uniti il primo rullino di pellicola Kodak; il suo inventore, George Eastman, ebbe il merito di aver realizzato un rullo fotografico che, invece di carta trasparente, utilizzava come supporto la celluloide. Un rotolo consentiva di ottenere ventiquattro immagini dal formato di 10x12,5 centimetri. Il funzionamento di questa macchina fotografica era semplicissimo: bastava «puntare la macchina, premere il bottone, girare la chiavetta, tirare la funicella […]: voi premete il bottone e noi pensiamo al resto», come suggeriva lo slogan pubblicitario di Eastman.
Un esempio dei primi studi che Edward Muybridge eseguì nel campo della fotografia dei soggetti in movimento
La fotografia si sviluppò rapidamente e soppiantò ben presto diversi filoni delle arti pittoriche: il mezzo meccanico produceva risultati impeccabili a prezzi contenuti e in tempi più brevi. Ben presto nel ritratto descrittivo e nel reportage di documentazione la fotografia dimostrò la sua intrinseca superiorità rispetto alla pittura di genere. Molti artisti - pensiamo a Felix Nadar, per esempio – si specializzarono nella ritrattistica e arrivarono a sviluppare capacità compositive e d’indagine psicologica analoghe a quelle di un ottimo ritrattista.
Nei primi decenni dopo l’invenzione della fotografia in bianco e nero, si cominciò a intervenire manualmente sulle stampe per la coloritura dei soggetti, ma presto si sperimentarono nuove tecniche per ottenere immagini colorate. Sarebbero stati i fratelli August e Louis Lumiére nel 1908 a consentire a chiunque di ottenere immagini diapositive colorate, chiamate autocromie. I Lumiére usavano come base colorante un miscuglio di tintura composto da fecola di patata che veniva steso su una lastra verniciata, sopra alla quale veniva applicata un’emulsione fotosensibile. La fotografia veniva eseguita ponendo il vetro dalla parte dell’obiettivo: la luce veniva filtrata dai grani di fecola colorata coerentemente con i colori del soggetto. Si otteneva così una diapositiva il cui effetto era «il medesimo di quello che si riceve guardando un quadro di Segantini, del Previati, dei divisionisti», come scriveva Luigi Pellerano nel 1914 ne L'autocromista e la pratica elementare della fotografia a colori.
L’industria mondiale della fotografia avrebbe perfezionato di anno in anno questo procedimento. La Kodak avrebbe messo sul mercato le sue pellicole colorate nel 1935 e il colore avrebbe sostituito il bianco e nero fornendo inedite possibilità di documentazione obiettiva e di lettura figurativa della realtà: ciò avrebbe presto reso l'immagine fotografica strumento elettivo per illustrare le notizie, tanto da rendere possibile la nascita del fotogiornalismo. Di questo periodo straordinario della storia vi ho parlato in questo articolo, imperbile per chi sia interessato alla storia delle immagini. Finché, poco più di cento anni dopo la commercializzazione della prima pellicola, essa non sarebbe stata soppiantata dalla fotografia digitale: e quella, naturalmente, è tutta un'altra storia.
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Qui sul blog de Il Tuo Biografo di fotografia parliamo spesso: se vuoi sfogliare tutti gli articoli scritti al riguardo, clicca qui.
Il blog de Il Tuo Biografo ha un debole per Franz Kafka e proprio per questo dai suoi scritti si è fatto ispirare in più di una riflessione. Se vuoi sfogliarle tutte (sono molto, molto diverse tra loro!), clicca qui.
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*La citazione che introduce questo articolo è tratto da Conversazioni con Kafka, di Gustav Janouch. Collega di di Franz Kafka presso le Assicurazioni Generali e suo grande amico, Janouch in questo libro raccontò il grande scrittore praghese più come un uomo che come figura letteraria. Il blog de Il Tuo Biografo ha approfondito la biografia di Kafka - e le successive dispute legali legate alle sue opere inedite - in questo articolo e ha suggerito la lettura del suo Lettere a Milena, di cui se vuoi puoi leggere cliccando qui. Forse, se hai letto questo articolo sulla nascita della fotografia, sei interessato anche a un'ulteriore riflessione - ispirata proprio da un racconto di Franz Kafka! - legata alla percezione della realtà e della verità di un'immagine: oggi siamo nell'epoca della post-verità e, a differenza di un tempo, vedere una fotografia non significa che non ci si possa trovare davanti a una fake-news. Se vuoi leggere l'articolo, clicca qui.
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L'articolo che hai appena letto fa parte di una serie che Il Tuo Biografo sta dedicando alla storia della fotografia e del fotogiornalismo. Dopo aver raccontato la nascita della fotografia, qui ho spiegato in che modo questa scoperta tecnologica sia diventata - prima negli USA e poi nel resto del mondo - un mezzo d'informazione per eccellenza. Trovi invece una retrospettiva sul fotogiornalismo italiano in questo articolo. Più di ogni altro evento la tragicità della guerra ha trovato la sua massima rappresentazione nella fotografia, forse perché le parole a volte non bastano a spiegare pienamente l'orrore, e di questo ho parlato in questo articolo. Lo sapeva bene il grande fotografo di guerra Robert Capa, di cui qui ho raccontato la breve ma intensa biografia. La guerra può lasciare segni profondi sul corpo e sull'anima di chi l'ha conosciuta da vicino: lo spiega bene il progetto fotografico di David Jay, di cui ho parlato qui.
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