La raffigurazione della guerra è un tema ricorrente nel fotogiornalismo, che la rappresenta sia colmando l'urgenza informativa, cioè dando una notizia, che superando con un fermo-immagine il cortocircuito espressivo dell'orrore che non sempre trova parole per essere descritto.
Là dove si incontrano politica e vita, dolore e umanità negata, la fotografia, cogliendo un istante da un cumulo di eventi spesso troppo complessi per essere contemporaneamente compresi e sentiti, riesce in alcuni casi a farsi simbolo di una parentesi di storia e a penetrare con forza l'immaginario collettivo più di ogni altra narrazione più strutturata.
Incarnazione perfetta del motto show, don't tell - «mostra, non raccontare» - così spesso evocato in contesti narrativi, la fotografia informativa cala lo spettatore nella notizia senza neppure doverla spiegare in dettaglio. Per raccontare temi al contempo complessi e delicati, questa è una virtù preziosa. Non stupisce dunque che guerra e fotografia siano legate da una relazione profonda e indissolubile, incarnata di fatto dalla figura del fotografo di guerra - ovvero dal professionista che mette a disposizione il suo corpo e il suo sguardo al fine di spiegare un evento difficile e pericoloso a chi se ne trova lontano.
Sono molti i fotografi di guerra che ricordiamo quasi come figure eroiche, perché capaci di lasciare un segno nella storia ritraendo attimi che sono diventati iconici: si pensi ad esempio al fotoreporter per eccellenza, Robert Capa, di cui vi ho dato un ritratto in questo articolo, o ad altri suoi colleghi contemporanei come James Nachtway, famoso in particolar modo per aver raccontato coi suoi scatti la guerra civile in Rwanda tra il 1990 e il 1994.
Lo stretto legame tra immagine e conflitto è confermato anche dalla larga presenza di fotografie di guerra che partecipano al World Press Photo, il più prestigioso e importante concorso mondiale di fotogiornalismo, fondato nel 1955. Che si tratti del Kosovo o del Rwanda, dell'Iraq o della Siria, la fotografia racconta la guerra praticamente da quand'è nata, tanto da aver raffigurato eventi lontani come la Guerra di Secessione Americana tra il 1861 e il 1865 e qualsiasi altro grande evento storico e sociale a partire dalla sua invenzione, nel 1827.
Rispetto ad altri tipi di raffigurazione, come ad esempio la pittura di cui nessuno dubita che della realtà sia un'interpretazione, la fotografia presenta un rapporto più naturale ma anche più complicato con la verità. Questo accade soprattutto quando - come in campo giornalistico - il suo fine principale è quello di informare su ciò che accade davvero nel mondo. Essendo la fotografia un estratto di realtà, ciò che mostra è infatti sempre sicuramente vero. Tuttavia l'obiettivo non può che contenere una certa porzione di realtà alla volta, osservarla da un dato punto di vista e con intenzioni precise. Questo è un fatto che spesso alcuni dimenticano. Proprio perché la fotografia ritrae la realtà senza imitarla, e in questo consiste la sua potenza, il fatto che un'inquadratura precisa derivi comunque da un certo punto di vista rende questo genere d'immagine adatto allo scopo di persuadere o, peggio, anche manipolare - senza che se ne accorga - l'opinione di chi la guarda.
Se il rapporto tra fotografia e guerra è stretto, lo è infatti anche quello tra immagine e persuasione. Questo è tanto più vero quando a filtrare le notizie è un corpo politico o di governo, sia in dittatura che in democrazia. Anzi, in mancanza di mezzi più coercitivi, in democrazia la possibilità di influenzare l'informazione diventa lo strumento principe per condizionare l'opinione pubblica e, grazie alla potenza evocativa della fotografia, l'abuso dell'immagine fotogiornalistica assurge a protagonista di qualsiasi tentativo demagogico di raccontare la realtà secondo un preciso punto di vista. Oggi, grazie alla manipolazione digitale della fotografia, questa prassi si è diffusa molto più di un tempo, perché più alla portata di tutti: e, mentre in parte si è rotto il patto per cui un'immagine fotografica rappresenta sempre almeno una porzione di realtà, allo stesso tempo ne è rimasta conservata la capacità evocativa. È per questo che le fake news hanno presa tanto facile su molte persone. Del rapporto tra fake news e verità ho parlato in modo più esteso in questo articolo, a cui senza dubbio vi rimando se vi interessa l'argomento.
Il fatto è che la manipolazione dell'opinione pubblica attraverso l'immagine fotografica non è certo stata inventata oggi, e da sempre riguarda in particolar modo la guerra. Perché proprio la guerra?
Perché la guerra, almeno per chi cerca di comprenderla grazie alle immagini dei mezzi d'informazione, è una cosa lontana, è altrove, e dunque proprio per questo la sua narrazione può essere controllata. Non è forse ciò che vediamo accadere ogni giorno, ora che grazie a Internet il mondo sembra essere diventato più piccolo? Ed eppure non è forse proprio grazie a questa falsa percezione che per noi, seduti a casa sul divano tentando d'informarci, diventa difficile discernere tra le tante notizie che raccontano di luoghi geograficamente lontani, di cui, se non facciamo attenzione alle fonti, viene detto di tutto e il contrario di tutto? Forse vi stupirà sapere che questo schema non è nuovo, né poi così moderno.
Uno dei primi casi notevoli di manipolazione dell'opinione pubblica grazie a fotografie di guerra risale alla Guerra di Crimea, che si svolse nell'omonima penisola russa tra il 1853 e il 1856. Vide coinvolto l'Impero Russo, con le sue mire espansionistiche verso Occidente, contro un'alleanza composta dall'Impero Ottomano (l'attuale Turchia, che si sentiva minacciata) e da Francia, Piemonte e Inghilterra, che temevano un eventuale dominio russo sul Mediterraneo. Quando la guerra scoppiò, molti fotografi vennero mandati al fronte, perché i disegnatori dal vivo e i cronisti non bastavano più: la Guerra di Crimea fu infatti il primo conflitto moderno in cui cominciò ad avere rilevanza l'opinione pubblica dei cittadini che s'informavano sui giornali e a cui le immagini potevano mostrare senza filtro cosa accadeva in quelle terre lontane. La fotografia divenne un prezioso mezzo d'informazione e la propaganda una nuova arma.
Proprio per questo, il governo inglese appoggiò l’iniziativa dell’avvocato londinese Roger Fenton, appassionato fotografo di paesaggi, che decise di partire per la Crimea, dove allestì un rudimentale laboratorio in un vecchio carro trainato da due cavalli. Fenton eseguì circa trecentocinquanta fotografie, che inviò all’Illustrated London News. Il suo scopo era dare un’idea il più possibile gradevole della guerra, senza cadaveri e scene cruente, affinché i lettori inglesi si sentissero tranquillizzati. La mistificazione delle informazioni circa il conflitto avvennero grazie alla ripresa di tranquilli accampamenti, di sentinelle quasi a riposo accanto a mute bocche di cannone e di qualche sorridente e bella vivandiera. A Fenton, tornato in patria dopo quattro mesi, successe James Robertson, che concluse il lavoro iniziato dal collega: anche lui mostrò campi di battaglia già ripuliti dai cadaveri, scattando per lo più fotografie eseguite dopo una lunga posa. A quel tempo infatti non era possibile scattare delle istantanee e del resto affrontare il conflitto portandosi appresso ingombranti attrezzature avrebbe fatto di qualsiasi fotografo un bersaglio certo.
Quello della Guerra di Crimea fu il primo esempio di fotogiornalismo di guerra usato a scopo propagandistico, anche se non fu certo l’ultimo. Meno di dieci anni dopo si svolse infatti in America la Guerra di Secessione: qui alcuni fotografi si organizzarono per proprio conto in una specie di agenzia, fondata da Mathew Brady nel 1861 con alcuni amici. L'intento del gruppo di fotografi era immortalare sistematicamente tutta la situazione bellica, ma solo dal punto di vista dei nordisti. Proprio come per Robertson in Crimea, anche per questi antesignani fotoreporter la guerra era un soggetto da riprendere al termine della battaglia. Nelle loro foto spiccavano macerie e cadaveri abbandonati sul campo, ma mai momenti d'azione o scene particolarmente cruente.
Questi non sono che i due primi esempi di una lunga tradizione, in cui la fotografia ha testimoniato il conflitto con l'intento preciso di raccontare solo una parte della storia. Sebbene ogni immagine derivi necessariamente da un punto di vista e sia impossibile giungere a un'oggettività assoluta in qualsiasi forma di racconto, esplicitare da dove parte lo sguardo - o almeno porsi questa domanda ogni volta in cui si osserva una foto - già permetterebbe di avvicinarsi a un'interpretazione più equilibrata della realtà. Come sempre avviene per quanto riguarda la comprensione del rapporto tra fotografia e guerra, e l'impossibilità di uno sguardo imparziale, ci viene in aiuto una dichiarazione - il suo primo comandamento - del grande Robert Capa: «In una guerra, devi odiare o amare qualcuno, devi avere una posizione: altrimenti non riesci a sopportare quello che succede».
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Sul blog de Il Tuo Biografo di fotografia parliamo spesso: se vuoi sfogliare tutti gli articoli scritti al riguardo, clicca qui.
L'articolo che hai appena letto fa parte di una serie che Il Tuo Biografo sta dedicando alla storia della fotografia e del fotogiornalismo. Qui, per esempio, ho raccontato come nell'Ottocento nacque lo strumento portentoso della fotografia, mentre invece qui ho spiegato in che modo questa scoperta tecnologica sia diventata - prima negli USA e poi nel resto del mondo - un mezzo d'informazione per eccellenza. Trovi invece una retrospettiva sul fotogiornalismo italiano in questo articolo. Più di ogni altro evento la tragicità della guerra ha trovato la sua massima rappresentazione nella fotografia, forse perché le parole a volte non bastano a spiegare pienamente l'orrore. Lo sapeva bene il grande fotografo di guerra Robert Capa, di cui qui ho raccontato la breve ma intensa biografia. La guerra può lasciare segni profondi sul corpo e sull'anima di chi l'ha conosciuta da vicino: lo spiega bene il progetto fotografico di David Jay, di cui ho parlato qui.
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