2090128167685128 Pandemia: un trauma personale, un lutto collettivo
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  • Immagine del redattoreNina Ferrari

Pandemia: un trauma personale, un lutto collettivo



Oggi scrivo questo articolo per condividere qualcosa di molto personale. Chi segue il blog de Il Tuo Biografo sa che le digressioni personali sono rare in queste pagine, perciò, per coloro che lo amano soprattutto per il suo rigore informativo e letterario (sapete che ci tengo), abbiate un briciolo d'indulgenza. Prometto che si tratterà di un caso isolato.


Vi scrivo oggi, è la fine di marzo 2020, e a causa della pandemia di COVID-19 l'Italia tutta si trova in quarantena da quasi tre settimane. C'è chi, in territori specifici, vive in questa situazione da più di un mese. Vi penso tutti, miei compagni di sventura. Io, vivendo in Trentino, all'inizio ho affrontato queste restrizioni con rigore, ma col cuore relativamente leggero. Sapevo che la situazione sarebbe potuta diventare critica per i malati e per gli operatori sanitari, entrambe categorie di cui per ora non faccio parte, ma in fondo mi si chiedeva solo di restare a casa.


Nei primi giorni ho bisticciato un po' col mio compagno, con cui non ero solita condividere lo spazio 24 ore su 24, poi con un'occhiata d'intesa ci siamo detti «basta idiozie», abbiamo messo da parte tutte le sciocchezze per cui ci siamo sempre scontrati (tipo: io lascio sempre gli armadietti aperti, lui dimentica sempre bicchieri e tazze in giro), abbiamo fatto più attenzione e siamo diventati più tolleranti. Ci amiamo, è vero, ma non è che questo prima fosse servito a calmare gli animi. Siamo fortunati, perché abbiamo una fetta di giardino, che più che altro al tempo era una selva piena erbacce. Ci siamo messi a strappare tutto per provare un giorno a ricavarne un orto. E poi naturalmente ci siamo messi a cucinare come matti - in questo sono fortunata: il mio compagno è un cuoco sopraffino!


Mi sono tenuta informata più che potevo, vagliando le fonti e assicurandomi di scegliere quelle che non incedono in sensazionalismi. E ogni tanto, capendo come si evolveva la situazione a livello nazionale e internazionale, sono caduta in stati d'ansia. Il fatto di non poter fuggire, neppure per un giretto in centro, per un aperitivo o una bella passeggiata, di non poter vedere i volti dei miei amici con cui amo confrontarmi, e che spesso in passato mi hanno tirata su quando avevo un nodo da sciogliere, certo non ha contribuito a farmi stare meglio. Nonostante la mia abituale ritrosia al riguardo, nelle ultime settimane mi sono trovata a fare più videochiamate di quante ne abbia mai fatte in tutti gli anni passati. È vero, non posso abbracciarli, i miei amici, ma riconoscere il loro sorriso mi porta sempre allegria.


Poi ad un certo punto ho cominciato a stare peggio. Il senso d'ansia che già avevo provato andava e veniva, ma per lo più restava. Ho cominciato ad avvertire una tensione costante in tutto il corpo, ad addormentarmi con fatica, a provare una stanchezza immotivata, ma profondissima. Il mio umore è peggiorato. Strappare le erbacce stancava il corpo, ma qualcosa nel retro del mio cervello continuava a lavorare, senza che lo volessi; e, per quanto la mia mente fosse esausta, non riuscivo a fermarla. Ma fermarla da cosa? Non lo capivo mica. Certo, in parte mi preoccupavo per le persone lontane, quelle che ami e a cui vorresti essere vicino e che eppure in questo periodo devi tenerti distante per il bene di tutti. Ma ciò che provavo era anche più forte di questo. Sono il tipo di persona che tende all'analisi, ma per quanto mi sforzassi a sondarmi continuavo a non capire.


Poi, complice un programma televisivo che guardavo distrattamente, e in cui un membro del nostro attuale governo menzionava come le immagini di Bergamo avessero cambiato molte cose per lui, anche personalmente, ho capito. Io ero in lutto. Un lutto personale ma collettivo, condiviso con una persona lontana, che non conosco, e che magari in passato mi è capitato di criticare. Ma, come me, anche questa persona è italiana ed è rimasta ferita - è cambiata - per qualcosa di cui recentemente siamo stati testimoni.


Era il lutto che mi faceva stare male, era quella la pasta del dolore che provavo. Avrei potuto comprenderlo prima, perché purtroppo mi è già capitato di soffrire per la morte, ma in quel caso si trattava di una perdita a me vicina, viscerale, a cui non era possibile sfuggire. In questo caso la situazione era molto diversa. Come potevo soffrire in quel modo per la morte e il dolore di qualcuno che non ho mai conosciuto? Per una piaga che affliggeva il mio Paese, risparmiando tuttavia - e per fortuna - la maggioranza delle persone che mi sono più vicine?


Ciò che ho capito è che stavo - e tutt'ora sto, mentre vi scrivo - partecipando con la mia singola coscienza a un lutto che è potenzialmente di tutti gli italiani. Per me ciò che ha cambiato tutto sono state le immagini dei camion dell'esercito che trasportavano altrove le salme di Bergamo, mentre è possibile che per qualcuno di voi il trauma derivi da qualcos'altro e abbia connotati diversi dal mio. In generale, mi auguro che non viviate alcun trauma, sia chiaro.


Ma magari qualcuno vicino a voi si sente o si è sentito come me, senza saperselo spiegare, sbattendo - metaforicamente - la testa contro i muri e non riuscendo a cogliere il bandolo della sua personale matassa. Sentendosi divorare da un dolore che magari ha deciso di addurre alla reclusione, all'incertezza del momento, all'economia, mentre invece ciò che stiamo vivendo in questi giorni è tristemente straordinario, e va bene sentirsi male; ma è anche importante capire bene cosa causi questo dolore, altrimenti si sta male e basta e poi si fa finta di dimenticare. Si cambia, ma senza possedere il nostro cambiamento e senza riconoscere le nostre reazioni. Se qualcosa ti cambia, è sempre bene saperlo. Ciò che aiuta sempre, in questi casi, è riconoscere la fonte del nostro dolore, guardarlo in faccia, accettare il pianto, e provare a integrarlo nella nostra esperienza, nella nostra memoria, come una cosa che ci ha mutati, ma che possiamo superare nel momento in cui cominciamo a riconoscerlo come - tristemente - nostro.


Quando ho capito qual era la fonte della mia sofferenza, era notte tarda, ho deciso di provare con la scrittura espressiva. Siamo pur sempre confinati a casa ed esprimere le nostre sensazioni e i nostri pensieri altrimenti, ad esempio a un amico caro, è più difficile in questo periodo. Allora ho preso un foglio e ho cominciato a scrivere, di getto, tutto quello che provavo riguardo a quella data cosa. Ad un certo punto ho dovuto interrompere la scrittura perché avevo la vista annebbiata dal pianto. Poi ho ricominciato. Dopo meno di dieci minuti, sapevo di aver esaurito - almeno per il momento - il carico di riflessioni che fino ad allora avevano vorticato disordinatamente nella mia testa. Le ho messe in ordine, le ho lasciate defluire, e mentre defluivano ho iniziato a guarire. Ho dormito bene, quella prima notte.


Avevo iniziato il mio percorso. Oggi sono tre giorni che non sono più stanca come lo ero prima, perché so di aver iniziato a lavorare su me stessa nella direzione giusta. Sto elaborando il mio lutto, che forse condivido con qualcuno di voi. Non dico che sto da dio, ma almeno ogni volta in cui sento salire dentro di me quello stesso dolore, so dove metterlo e capisco che devo affrontarlo come una perdita che mi sta disorientando ma da cui mi riprenderò. Il tempo e il lavoro della coscienza, assieme all'esprimersi, sempre, riguardo a ciò che proviamo nel profondo, fanno miracoli. Se non sempre possiamo parlare, almeno possiamo scrivere. E in questo momento dobbiamo dotarci di tutti gli strumenti possibili per mantenere il nostro equilibrio.


Ecco, ho deciso di scrivervi tutto questo perché magari là fuori c'è qualcuno che, come me, deve trovare il bandolo della sua matassa e cominciare a sua volta a integrare qualcosa di doloroso nella sua recente esperienza. Se volete sapere qualcosa di più sulla scrittura espressiva, che è una tecnica di scrittura particolare che per funzionare necessita dell'uso di carta e penna, vi rimando a questo articolo in cui ve ne ho parlato qualche tempo fa.


Spero che vi prendiate cura di voi stessi. Vi abbraccio.


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