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  • Immagine del redattoreNina Ferrari

L'identità fragile, che minacciata scivola nell'odio


La nostra identità deriva dalla memoria che abbiamo della nostra storia. Che si tratti di identità personale o di identità collettiva, ci riconosciamo nel prodotto di eventi e riflessioni che ci hanno portati al punto in cui siamo oggi - nel percorso grazie a cui sappiamo di essere ora ciò che siamo. Quando rispondiamo alla domanda: «Chi sono?» il ritratto che diamo di noi stessi dipende dal nostro lavoro di memoria soggettivo, cioè dalla nostra personale percezione e rielaborazione di dati ritenuti importanti per definire in cosa possiamo riconoscerci.


Spesso questo lavoro di memoria implica anche doversi spiegare i propri errori e metabolizzare eventi traumatici che o decidiamo di ignorare o ci impongono una certa assunzione di responsabilità. Che, guarda caso, di solito prende la forma di un dovere-di-memoria, perché ciò che è percepito come negativo possa almeno fungere da lezione da cui imparare qualcosa, e che proprio per questo non va dimenticata.

Il lavoro di memoria necessita di una selezione - ricordare tutto ci renderebbe l'esistenza impossibile - e qualsiasi tipo di selezione ci costringe all'oblio, ovvero a descrivere la nostra identità tralasciando alcuni aspetti ritenuti meno importanti per risaltarne invece altri più fondamentali: talvolta tale selezione viene condotta da noi stessi, soprattutto per quanto riguarda il nostro vissuto personale. Per quanto concerne l'identità culturale di un gruppo o di un popolo, si tratta per lo più di un processo filtrato dai nostri antenati e dai nostri maestri e che conduce, come sempre in questi casi, a offrire elementi di riconoscimento di sé che poggiano su alcuni perni selezionati.


Non esiste alcuna narrazione senza la giusta dose di oblio, perché raccontare significa scegliere, organizzare, sottolineare alcuni elementi a discapito di altri. E - tenere bene a mente questo è fondamentale - ogni storia può essere raccontata altrimenti. È un esercizio molto interessante, per chi sia appassionato di memoria e identità.

Dove si annida allora la fragilità della nostra identità? Proprio in questa soggettività applicata al processo di selezione della memoria: cioè nella possibilità, da un lato, di manipolarla, introducendo nella narrazione elementi falsi o discutibili, o risaltando questioni che da un altro punto di vista potrebbero apparire del tutto marginali; dall'altro, nell'abuso dell'oblio, ovvero nell'ignoranza di fatti che dovrebbero essere presi in considerazione per ottenere un quadro completo. È vero che non ci si può ricordare tutto, ma dimenticare tutto - cioè non sapere abbastanza - a volte può essere ugualmente letale: perché è nell'ignoranza, intesa come assenza di memoria, che trova terreno fertile il radicamento di ogni ragionamento fallace e, inoltre, di ogni ideologia.

Le ideologie - ovvero il racconto di sé, di un individuo o di un popolo, sotto una luce granitica che si è fatta unico canone di riferimento per ogni riflessione - fagocitano tutto il racconto non ammettendo versioni alternative. E, nonostante questa inflessibilità, esse dicono poco di noi stessi e della nostra identità, perché sono spesso verità impersonali calate dall'alto, che, pur rinforzando il tono del racconto, lo rendono fragile nelle sue basi; fragile come l'identità stessa: perché, tolta l'ideologia, non rimane altro.


Per questo chi si riconosce in un'ideologia, prima ancora che nella conoscenza di sé stesso, la difende con tanta strenua convinzione e accanimento. Nessuno può accettare di vivere senza sapere chi è, senza riconoscersi in qualcosa, anche quando questa conoscenza è poggiata su fondamenta inconsistenti. Perciò l'ideologia è restia a farsi mettere in dubbio.

In tempi politicamente difficili come quelli che stiamo vivendo, in un periodo storico in cui la globalizzazione rende necessario a chiunque confrontarsi con l'alterità, mentre questioni come il terrorismo o l'immigrazione suscitano in molti una riflessione su presunti scontri di culture, la nostra identità è messa duramente alla prova. In particolar modo è messa alla prova l'identità di chi è più fragile, di coloro cioè che di loro stessi - o della propria cultura - conoscono così poco da sentirsi minacciati facilmente nel confronto con l'altro.


Esclusione e rifiuto diventano strumenti necessari per la sopravvivenza di identità che si sentono sotto attacco, perché, fino al momento del confronto - resosi inevitabile non per la volontà dei singoli, ma per incontrollabili questioni geopolitiche - non sapevano neppure cosa stavano rappresentando, né cosa avrebbero dovuto difendere esattamente. E allora difendono tutto, contro tutto. E anche questa è un po' un'ideologia, forse la più fragile di tutte.

Spesso quando si parla di razzismo si dice che non esisterebbe se si conoscesse di più chi si ha davanti. Sicuramente è vero, perché è l'ignoto stesso a fare paura, e anche comprensibilmente. Allo stesso tempo, comprendere l'ignoto - rendercelo noto - può toglierci molte paure, perché una volta che l'ignoto è conosciuto comincia a fare parte della nostra realtà più ristretta, da cui raramente possiamo essere intimoriti. Certo, a quel punto è possibile che si sia più capaci di individuare le problematicità di una situazione, ma anche di avere maggiori strumenti per risolverle.

Devo ammetterlo, a me pare strano che l'imperativo a conoscere non venga allargato anche al sé. Perché diamo così per scontato di conoscere noi stessi, come se si trattasse di una questione semplice? Com'è possibile sentirsi sicuri della propria identità, delle proprie radici, o di quale storia ha preceduto la nostra, quando persino i dettagli di vita di parenti prossimi come i nostri nonni ci sono spesso oscuri? Non parliamo dei bisnonni, questi sconosciuti! Io credo che abbiamo bisogno di più narrazione, di una maggiore consapevolezza di noi stessi, di un più approfondito studio della nostra storia recente, anche personale, perché la creazione di un'identità forte, capace di confrontarsi con tutte le sfide offerte ogni giorno dal mondo, richiede un grande lavoro di memoria, una grande consapevolezza di sé. Vivere nella paura non può essere un'opzione accettabile: conoscere se stessi, per potersi poi davvero confrontare con gli altri, sì. PS: Nell'articolo che avete appena letto ho parlato dell'importanza di conoscere la storia. Se su questo siete d'accordo con me, forse vi interesserà leggere anche questo articolo, in cui vi ho raccontato quella del popolo afroamericano e come sono nati negli USA i movimenti per i diritti civili, di cui Black Lives Matter è solo l'ultimo capitolo.

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Il blog de Il Tuo Biografo ha dedicato diverse riflessioni all'identità e alla memoria della vittima in quest'epoca purtroppo segnata da eventi capaci di causare la morte di masse di persone, che poi sono gli stessi eventi che minano la nostra identità generando la paura. Le vittime di massa, infatti, spesso faticano a ritrovare una loro identità e una memoria che renda loro onore: se ti interessa sfogliare tutti gli articoli che il blog de Il Tuo Biografo ha dedicato all'argomento, clicca qui.

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