2090128167685128 La libertà e la schiavitù di Margaret Garner, «Amatissima» nel romanzo di Toni Morrison
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La libertà e la schiavitù di Margaret Garner, «Amatissima» nel romanzo di Toni Morrison


Margaret Garner storia biografia mamma infanticida Amatissima Toni Morrison - Il Tuo Biografo Sara Strepponi


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«I was as cool as I now am; and would much rather kill them at once, and thus end their sufferings, than have them back to slavery, and be murdered by piece-meal.»
«Ero lucida come lo sono adesso; e preferirei di gran lunga ucciderli subito, e mettere fine alle loro sofferenze, piuttosto che farli ripiombare nella schiavitù e lasciarli venire assassinati un poco alla volta»


Furono parole concise quelle pronunciate da Margaret Garner dopo che aveva ucciso sua figlia. A distanza di oltre un secolo, questo breve frammento d’intervista ispirò la scrittrice Toni Morrison, futuro Premio Nobel per la letteratura nel 1993, a sondare e raccontare la vicenda umana di questa donna in un romanzo profondo e struggente, Amatissima, che fu pubblicato per la prima volta nel 1987. Ma, se Toni Morrison trasse ispirazione dalla sua figura, chi era stata davvero Margaret Garner?


Afroamericana, Margaret era nata schiava in Kentucky nel giugno del 1834. A soli ventidue anni e durante un tentativo di fuga, giunse con la propria famiglia nel territorio libero dell'Ohio. Qui, braccata dagli inseguitori e sopraffatta dal dolore per un sogno di libertà ormai infranto, si rese protagonista di un gesto estremo e disperato: ghermendo con violenza un coltello, rivolse la lama verso la figlia Mary di soli due anni e mezzo, le si avventò contro e le recise la gola. Con il corpo della piccola ormai a terra ed esangue, la donna tentò, invano, di ripetere il gesto mortale sugli altri suoi figli.


Nell’America dell’epoca lo status giuridico del neonato figlio di schiava era vincolato a quello materno, indipendentemente dal fatto che il padre fosse o meno uomo libero. Questa situazione giuridica – peraltro beffarda se la si osserva in un contesto fortemente patriarcale – forniva a una donna schiava l’amara certezza che i propri figli avrebbero avuto un’esistenza piegata al volere del padrone. Dalla nascita alla morte, il loro corpo sarebbe stato soppesato e valutato come merce di scambio, la loro carne avrebbe portato i segni indelebili della violenza e, molto probabilmente, la loro integrità sarebbe stata violata anche nella sfera sessuale. La figlia nata in schiavitù si sarebbe inoltre vista defraudare di qualsivoglia diritto alla famiglia: ancorché moglie e madre, una schiava era considerata anzitutto una genitrice a cottimo, il cui grembo, piegato a ripetuti abusi, avrebbe generato una prole da svezzare e sferzare nelle piantagioni, luogo emblema del predominio e dei guadagni dei bianchi.


In tale contesto, per Margaret, infliggere una fine immediata e liberatoria alla sua creatura, significò risparmiarle il lento e strisciante tormento della schiavitù, vale a dire preservarla da una tortura mortale somministrata goccia a goccia, un po’ al corpo e molto all’anima. Macchiandosi le mani con il sangue della figlia, inoltre, la donna trascese drammaticamente il suo status di schiava e, così facendo, usurpò gli uomini bianchi del loro diritto esclusivo di decidere circa la vita o la morte degli afroamericani di loro proprietà.


Purtroppo di questa efferata vicenda mancano testimonianze dirette, lettere o diari personali.

La frase riportata in apertura e pubblicata dal reverendo Bassett sull’American Baptist nel 1856 è infatti una tra le poche dichiarazioni che Margaret rilasciò apertamente. Dal momento della cattura sino al reintegro presso la famiglia proprietaria in Kentucky, e per tutta la durata del processo che si tenne nel frattempo, la donna mantenne un atteggiamento compunto, sofferto ma estremamente silenzioso.


Mentre la voce di Margaret languiva – ormai rassegnata all’ineluttabile – i suoi concittadini cercarono di dare una risposta ai tanti interrogativi che la vicenda sollevava. Investendo l'infanticidio di un carattere eminentemente simbolico, gli americani diedero vita a un'accesa discussione che portò a mettere in discussione l’istituzione stessa della schiavitù, nonché le sue evidenti distorsioni. Intorno ad esse abolizionisti e schiavisti si scontrarono con i toni accesi, che furono preludio alla guerra civile che sarebbe di lì a poco iniziata nel 1861. Terreno di scontro furono i giornali dell’epoca, grazie ai quali oggi è possibile ricostruire la vicenda umana e processuale di Margaret Garner in quello che fu uno dei processi più lunghi e controversi mai intentati per una causa legata a una fuga di schiavi.


«A tale of horror!» titolava il Cincinnati Daily Enquirer nel dare un resoconto degli avvenimenti il 29 gennaio del 1856. Scopriamo così che, nella tarda serata del 27 gennaio, durante quello che fu uno degli inverni più rigidi mai registrati in Kentucky, una famiglia di schiavi composta da otto persone, di età compresa tra i nove mesi e i cinquantacinque anni, fuggì dal Nord del Kentucky con prima destinazione Cincinnati, Ohio.


Margaret Garner – incinta del suo quinto figlio – , suo marito Robert, i quattro bambini della coppia – Tommy, Sammy, Mary e Cilla – e i genitori di Robert – Simon e Mary –, confondendosi nel buio della notte e approfittando della neve che ammantava le strade, raggiunsero in slitta la cittadina di Covington, al limitare della quale il fiume Ohio, ghiacciato a causa delle rigidissime temperature, permise loro di farne un ponte, un provvidenziale passaggio naturale. Rischiarati dal sole che albeggiava, i Garner assaporarono così quelle che furono le loro prime e lievi ore di libertà. Ciò che dovettero provare fu, tuttavia, solo un guizzo di felicità, un'illusione che durò il tempo di una mattinata. Accolti presso l’abitazione di Elijah Kite – cugino di Margaret che avrebbe dovuto facilitare il loro accesso a Nord tramite la ferrovia sotterranea – i Garner furono presto raggiunti e accerchiati dai loro padroni.


Alla porta di casa Kite si presentarono infatti, muniti di ordine di cattura e accompagnati da una folta delegazione di ufficiali e cittadini, Archibald K. Gaines e Thomas Marshall. Alla famiglia Marshall appartenevano Robert e i genitori, mentre Margaret e i figli erano schiavi presso la fattoria Maplewood di proprietà del torvo e poco raccomandabile Gaines.

Già provato a causa di una quotidiana separazione dalla famiglia, Robert, quando vide gli inseguitori intenti a penetrare nell’abitazione, oppose una tenace resistenza e, nel brandire una pistola, ferì uno degli ufficiali. Contemporaneamente la moglie Margaret, guidata da una furia ancor più disperata, pose fine alla vita della figlia Mary.


I testimoni presenti in casa Kite ebbero a dire che i due coniugi Garner si «batterono con la ferocia di tigri», lasciando sottendere così l’idea che la vicenda fosse un clamoroso caso con tutti i connotati animaleschi dell'horror e della pazzia – A tale of horror del resto titolava L’Enquirer.


Fin da subito, Margaret venne appellata come una donna isterica, selvaggia e delirante, una terminologia che, sebbene stridesse con l’immagine di fin troppo lucido e infinito dolore rivelato dal suo volto, di fatto reiterava l’assurda teoria medica del dottor Samuel A. Cartwright. Secondo il medico, alcuni disturbi mentali rappresentavano inveterate caratteristiche del popolo di colore che, se lasciato libero, sarebbe inevitabilmente ricaduto nell’illegalità e nella violenza. Disarmare e catturare i Garner era dunque considerata una missione necessaria per arginare le conseguenze di una pazzia ineluttabile. Furono condotti presso la prigione della contea e il giorno seguente ebbe inizio una causa legale senza precedenti.

Davanti alla corte del commissario John L. Pendery, i legali di Gaines e Marshall chiesero l’immediata applicazione del Fugitive Slave Act del 1850. Tale legge stabiliva una serie di precetti per rendere più agevole il reintegro degli schiavi presso i proprietari. Oltre a determinare severe punizioni che scoraggiavano i cittadini nell'assistere e nel proteggere i fuggitivi, il Fugitive Slave Act proibiva ogni tipo di ingerenza da parte dei tribunali statali nell'attività giurisdizionale delle corti federali. In sostanza, l'interesse civile dei proprietari al reintegro nella proprietà dei loro schiavi – argomento di competenza federale – avrebbe avuto in ogni caso precedenza rispetto all’accertamento della responsabilità penale legata all'infanticidio.


Del resto, però, portare i Garner davanti a un tribunale statale per accertarne la responsabilità penale avrebbe potuto costituire l’unica strada per evitare il loro ritorno in Kentucky. Oggi può sembrare un’esagerazione, ma a quei tempi molti di coloro che della violenza portavano i segni sul corpo e i tormenti nell’anima avrebbero preferito affrontare una condanna penale – al limite anche la forca – piuttosto che un ritorno in schiavitù.


Agguerrita fu la difesa della famiglia Garner da parte del noto avvocato abolizionista John Joliffe che, se da un lato tentò di richiedere insistentemente che il caso fosse sottratto alla competenza federale, sul fronte della causa civile cercò invece di dimostrare come precedenti soggiorni in Ohio da parte degli imputati – visite che ebbero luogo per svolgere commissioni con l'avallo dei padroni – ne avessero già di fatto sancito la libertà.


Malgrado la strenua lotta interna ed esterna al tribunale – i manifestanti presenziarono per tutta la durata del processo fuori dall’aula –, l’esito della contesa fu tale da sancire la natura di merce degli uomini neri: il caso, conclusosi di fatto con la sentenza pronunciata il 26 febbraio del 1856, si configurò come una battaglia meramente legata ad una sottrazione di ricchezza avvenuta ai danni dei legittimi proprietari che perciò furono immediatamente reintegrati nelle loro proprietà. Margaret Garner, la cui vita non sarebbe mai entrata nella storia se non per circostanze tanto drammatiche, altrettanto improvvisamente e tristemente svanì dalla scena pubblica e del suo destino si persero le tracce. La donna morì probabilmente di tifo solo pochi anni dopo, nel 1858. Cionondimeno la sua storia sollevò domande che, per quanto scomode, divennero immortali.

Dove alberga la pazzia?


È pazza la donna omicida che mostra un volto solcato da cicatrici indelebili o a essere folle è il perpetuarsi del predominio di una razza sull'altra, causa di quegli stessi sfregi?


Come va letta questa vicenda umana che è controversa e niente affatto neutra?


Si può biasimare l'infanticidio o è più cauto sospendere ogni giudizio per indagare le ragioni con maggior rispetto e cautela? La donna, la cui pelle scura contrastava in maniera evidente con l’incarnato roseo chiaro della figlia Cilla, aveva subito violenze sessuali da parte di Gaines e i figli ne erano il risultato?


Affrontare questioni di tal calibro è tutt’altro che semplice. Tuttavia, esiste un modo elegante – e al contempo delicato e nobile – per muoversi in questa materia: far ricorso all’arte e alla sua capacità immaginifica. Poesie, dipinti, romanzi e persino opere teatrali si ispirarono alla vicenda di Margaret. In questa direzione si mosse soprattutto la scrittrice Toni Morrison che affrontò con estrema profondità emotiva la vicenda della madre schiava in Kentucky.


Durante la composizione di Black Book – un compendio del 1971 sulla cultura afroamericana –, Morrison s’imbatté nell’articolo di Bassett citato in apertura. Motivata dalla volontà di farsi portavoce del suo popolo e di sollevare così la coscienza collettiva intorno agli abusi da esso sofferti, la scrittrice decise di creare un’opera di fantasia per scandagliare l’anima di Margaret Garner. Ne nacque Amatissima, in inglese Beloved, romanzo del 1987 e a seguire, nel 2005, il libretto d’opera Margaret Garner.


In una lotta continua con la propria moralità e attraverso ripetuti flashback, la madre protagonista di Amatissima, la giovane Sethe, ripercorre l’infanticidio che a tutti, lei compresa, sembra imperdonabile. Tra i vari personaggi, Morrison introduce la figura di un fantasma – lo spirito della vittima – che, con la sua insistente presenza, perseguita Sethe e la costringe a vivere in un tormento. L’incubo si placa solo quando lo spirito, una volta assunti i connotati di una persona reale, costringe la madre a rivisitare il suo passato e la sua memoria. Una memoria individuale che Morrison sa ampliare e, magistralmente, rendere collettiva.


Ad essere oggetto di analisi diviene in tal modo l’esperienza e la coscienza di un intero popolo che non può dimenticare di aver sempre dovuto lottare per la propria autoaffermazione. E così, mentre la prosa si fa lirica e la magia sviscera l'anima di Sethe, il risultato del romanzo è duplice: rendere intelligibile il tragico gesto e far trapelare l'importanza dell’amore per sé stessi. Il valore della resistenza, opposto alla brutalità del sopruso, emerge chiaro anche nell’opera teatrale del 2005. Nel libretto di Morrison la violenza sessuale che Margaret subisce da Gaines spezza e interrompe un momento di riflessione che la donna sta vivendo intorno al concetto di amore – espresso nell’aria A quality love, che qui potete ascoltare. È un tempismo voluto che sottolinea quanto l’atto violento sia teso a privare le persone del loro sentimento amoroso e a violarne così non solo il corpo, ma soprattutto l'anima. Il gesto che segue alla fuga è dunque la risposta di una donna che commette un ultimo atto d’amore per affermare se stessa, la propria famiglia e il proprio popolo.

Viene a questo punto da chiedersi se la figura simbolica di Margaret Garner sia ancora attuale. Personalmente credo proprio lo sia, tanto per i sentimenti controversi che il personaggio ancora smuove quanto per le tematiche che purtroppo ancora sono reali. A tal proposito Morrison stessa scrive: «It was not a story to pass on». Con questa frase che – come ricorda Alessandro Portelli nel saggio che segue al romanzo – può significare «non era una storia da tramandare» ma anche «non era una storia da tralasciare», la scrittrice ci lascia in eredità la sua versione magica della vita di Margaret ricordandoci che il passato, per quanto tragico, deve sempre essere affrontato. Leggendo Amatissima – che naturalmente vi consiglio – mi è parso di sentire la voce della donna, quella che purtroppo al processo languiva. E allora, sebbene il testo non sia propriamente un'opera biografica, credo sia una lettura essenziale per colmare quello che i giornali dell’epoca non dissero, ovvero il racconto dell’anima di Margaret Garner.

Per avere una visione esaustiva della vita di Margaret, nonché della portata che la sua vicenda ebbe nella storia della lotta alla schiavitù in America, suggerisco, la lettura di alcuni testi, di cui la gran parte purtroppo non è disponibile in italiano. In generale, se l’argomento vi interessa, il blog de Il Tuo Biografo ha dedicato una pagina approfondita alla storia della schiavitù afroamericana in questo articolo, che racconta – tra l'altro – anche in che modo recentemente abbia preso piede il movimento di Black Lives Matter.


Tra i testi di approfondimento sulla vicenda di Margaret Garner, merita sicuramente un’attenzione particolare Who Speaks for Margaret Garner? di Mark Reinhardt che, tra le altre cose, presenta anche una raccolta esaustiva degli articoli comparsi nei giornali durante tutto il periodo del processo. Per soffermarsi invece sull’aspetto psicologico e sulla portata che il caso Garner ebbe per il movimento femminista afroamericano, suggerisco la lettura di Driven Toward Madness: The Fugitive Slave Margaret Garner and Tragedy on the Ohio di Nikki M. Taylor, a cui aggiungo Gendered Resistance: Women, Slavery, and the Legacy of Margaret Garner a cura di Mary E. Frederickson e Delores M. Walters, una raccolta completa di articoli e saggi sul tema.





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