2090128167685128 Storia dell'informazione e fotografia in italia
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  • Immagine del redattoreNina Ferrari

Storia dell'informazione e fotografia in italia




Giorgio Mulas ritrae nel 1968 una protesta studentesca in Piazza San Marco, a Venezia
Giorgio Mulas ritrae nel 1968 una protesta studentesca in Piazza San Marco, a Venezia

Oggi diamo per scontato che una notizia debba essere illustrata da immagini fotografiche, ma, se la si guarda da un punto di vista storico, si tratta di una consuetudine piuttosto recente. Innanzitutto, come vi ho raccontato in questo articolo sull'invenzione della fotografia, risale al 1888 la prima commercializzazione dei rullini Kodak, ovvero di un supporto che non solo fosse in grado di catturare la realtà, ma anche di riprodurla in copie replicate, stabili e sempre uguali. Prima di quest'invenzione tecnologica, la professione stessa di fotoreporter così come l'immaginiamo sarebbe stata impossibile. E forse non è un caso che il giornalismo fotografico abbia visto un suo primo sviluppo negli Stati Uniti, dove, oltre a nascere il marchio Kodak, fin dai primi anni del Novecento si creò un terreno particolarmente fertile per coloro che intendevano raffigurare le loro indagini sociali attraverso la fotografia. Di questo fecondo periodo storico per l'informazione - un periodo in cui per la prima volta le immagini impressero un palpabile cambiamento nel corso degli eventi della storia - vi ho parlato in questo articolo, dedicato alla nascita del fotogiornalismo.


E per quanto riguarda l'Europa e, in particolare, l'Italia, quand'è che la fotografia cominciò a cambiare il verso dell'informazione? A parte alcuni storici esperimenti, come quelli dell'llustrated London News a metà dell'Ottocento e di cui vi ho già parlato qui, perché la rivoluzione della fotografia scardinasse il corso del giornalismo tradizionale anche nel vecchio continente ci volle un po' più di tempo.


In Europa molti fotografi presero a seguire l'esempio dei loro colleghi americani solo dopo la Prima Guerra Mondiale, che di fatto bloccò la gran parte delle possibilità di progresso in questo campo. Prima della Grande Guerra, infatti, esempi di fotogiornalismo sociale si erano visti soprattutto in Francia, dove alla fine dell'Ottocento l'ex pittore Eugéne Atget aveva iniziato, quasi per caso, a dedicarsi alla fotografia, e in particolare a quella che oggi definiamo fotografia di strada. Egli si muoveva infatti per le strade di Parigi per immortalare la vita nella capitale europea. Compì un’eccezionale indagine ottica sulla Parigi fin de siécle, con particolare attenzione ai mestieri e alle attività minori. L'avvento della guerra, nel 1914, costrinse alla chiusura di molti periodici, di cui il francese Illustration fu uno degli unici superstiti. La sua redazione cercò di rassicurare i suoi lettori dicendo: «Ci sforzeremo d’illustrare e di commentare degnamente […] i grandi fatti storici cui assistiamo». Il 22 agosto 1914 l'Illustration pubblicò le prime immagini di guerra riprese sui campi di battaglia, che però nella maggior parte dei casi erano ricostruiti in studio con attori e figuranti. Nonostante gli sforzi, per diversi anni ai fotografi europei fu difficile replicare la rivoluzione già attuata dai loro colleghi d'oltreceano.




Parigi ritratta da  Eugéne Atget
Parigi ritratta da Eugéne Atget


Fu solo negli anni Venti del Novecento che, grazie a una disponibilità maggiore di mezzi tecnici, e sollecitati dalle nuove istanze economiche e politiche, i primi fotodocumentaristi europei si cimentarono col reportage moderno. Tra il 1924 e il 1925 vennero messe in commercio la Leica, capace di una notevole velocità d’impiego, e la Ermanox, provvista di un obiettivo di grande apertura che consentiva di scattare istantanee in ambienti poco illuminati.


Se i primi tentativi di fotoreportage in Europa tardarono un poco rispetto a quanto era già avvenuto negli Stati Uniti, per quanto riguarda l'Italia era la cultura fotografica in generale a essere in grave ritardo rispetto a quella europea. I progressi avvennero dapprincipio soprattutto in campo militare, dove era sentita l'esigenza documentare la crescita e la fermezza del neonato esercito italiano. Nel 1896 venne costituita la sezione fotografica nell’ambito della brigata Specialisti del Genio. Nella guerra italo-turca (1911-1912) una sezione fotografica venne dedicata al comando di spedizione italiano. L’impresa in Libia venne documentata dal capitano Armando Mola.


Unica eccezione alla fotografia militare, negli ultimi anni dell'Ottocento italiano, fu Giuseppe Primoli, pittore e bibliofilo, che per primo in italia usò la fotografia per documentare la vita degli aristocratici romani, che lui frequentava abitualmente. L’affresco fotografico di Primoli è un valido documento sul costume e sulle contraddizioni del suo tempo.


Un'immagine dei primi del Novecento di Giuseppe Primoli, il fotografo dell'aristocrazia italiana
Un'immagine dei primi del Novecento di Giuseppe Primoli, il fotografo dell'aristocrazia italiana


Durante la Prima Guerra Guerra mondiale i fotografi italiani si organizzarono nell’ambito del battaglione aerostieri. Non mancavano buoni fotoreporter, ma la censura militare bloccava gran parte del materiale fotografico, ritenuto troppo realistico per mostrarlo al popolo. Si pensi che ancora oggi negli archivi del Ministero della Difesa sono seppellite oltre diecimila fotografie risalenti a quel periodo. A quel tempo l’uso della fotografia per documentare la realtà sui giornali era modesto, se non addirittura escluso.


Il ruolo della fotografia nell'informazione rimase marginale in Italia fino all'avvento del fascismo. L'immagine divenne il fulcro nell’economia di alcuni settimanali e quotidiani solo negli anni Trenta, quando giornali come la Gazzetta del Popolo e il Corriere presero a documentare gli eventi della vita pubblica di Benito Mussolini. Anche l’Istituto LUCE (Unione Cinematografica Educativa, fondata nel 1924) iniziò ad intervenire massicciamente in ambito fotografico, disciplinando la pubblicazione delle immagini sui quotidiani e in alcuni casi iniziando a stipendiare alcuni scelti fotografi professionisti. Fu il regime a imporre la pubblicazione dei primi reportage italiani, che immortalavano soprattutto parate militari e raduni di regime.


Negli anni Trenta si diffusero settimanali quali Omnibus, fondato da Leo Longanesi nel 1937, e Tempo, creato da Alberto Mondadori nel 1939. Omnibus si serviva della fotografia in modo del tutto nuovo, come metafora e messaggio. Tempo, per realizzare i propri servizi, si avvaleva invece di foto d’autore.


Questi esempi di fotogiornalismo subirono un’involuzione con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) e la discesa in campo dell'Italia nel giugno del 1940, perché da quel momento in poi l’unico materiale autorizzato a circolare fu quello prodotto dal LUCE.


La fine del conflitto nel 1945 consentì una lenta ripresa del giornalismo italiano, che iniziò a ispirarsi a riviste come Life, Look, Paris Match e ai reportage di guerra dei fotografi d’oltralpe, che avevano ripreso a circolare anche in Italia.


Nel periodo postbellico nacquero nel frattempo giornali rivolti a un pubblico popolare, come Crimen, Cronache, Cronaca Nera, Reporter, La Settimana Incom e Settimo giorno. Su queste riviste, però, l’immagine era ancora dipendente dal testo scritto. Nonostante questo, anche in Italia la fotografia esercitò un potere rivoluzionario, quello cioè di svelare agli italiani il loro stesso Paese, caratterizzato da realtà molto diverse tra loro e spesso sconosciute ai più: molti furono i reportage che raccontarono i viaggi al Sud, svelando nicchie di arretratezza culturale ed economica, di miseria e povertà, sconosciute alle grandi città in cui questi giornali venivano distribuiti per la maggiore.


Un'immagine della "fattucchiera di Colobraro" di Franco Pinna, tratto dal suo reportage del Dopoguerra in Basilicata

Negli anni Cinquanta alcuni giornalisti si proposero di elevare il reportage al prestigio di cui godeva all'estero. Fotografi come Mario Pondero, Ugo Mulas, Uliano Lucas, Franco Pinna, Mario Carruba e molti altri proposero i loro servizi ai quotidiani, ispirandosi alle esperienze dei grandi fotografi che lavoravano per Life, Look, Paris Match. Il loro fu uno sforzo che trovò non poche resistenze, perché in Italia l'immagine era soprattutto avvertita come una fonte di svago, un divertimento evasivo. Le forme di comunicazione si divisero, polarizzando l'uso dell'immagine: da un lato, c'erano i fotoromanzi, destinati al proletariato spesso analfabeta e ricchi di fotografie; dall’altra il settimanale d’attualità, dedicato alla bassa borghesia impiegatizia, in cui un'immagine più sofisticata rimaneva al servizio delle parole. Tra il 1945 e il 1950 nacquero periodici come L’Europeo, Oggi ed Epoca. Oggi divenne subito una della letture più diffuse nella classe media, puntando sul reportage di vita mondana e sull’attualità, anche scandalistica.


Nel 1953 nacque Le Ore, il primo giornale italiano interamente fotografico. I testi che fungevano da didascalia alle immagini non superavano mai le cinque righe, giacché «ogni foto deve valere mille parole». Questa rivoluzione fu resa possibile dalla nascita di alcune agenzie come Publifoto, Giacolombo e Rotofoto, che si prefiggevano di rappresentare i loro fotografi sulla scorta dell'esempio di grandi agenzie fotografiche internazionali come la Magnum Photos, della cui nascita vi ho raccontato qui, e che era nata circa vent'anni prima a New York.

Sui quotidiani la situazione era drammaticamente differente: l’autonomia della foto diminuì fino a scomparire, sul solco di quanto stava avvenendo anche nel resto del mondo. Il fenomeno venne spiegato così da John Morris, uno dei fondatori della Magnum Photos, e a rileggerle oggi le sue parole sembrano profetiche: «Imparai ben presto la dura realtà dei quotidiani. La maggior parte dei giornali ragionava in termini di quantità d’immagini, non di qualità. E di velocità. Era la prima foto, e non la migliore, a essere usata».


Oggi, nell'epoca di Internet, un'affermazione come questa, vera a metà del Novecento, sembra essere stata portata alle sue estreme conseguenze. È infatti peculiare come la rete, pur dando spazio a ogni forma di comunicazione, abbia portato l'informazione a cannibalizzare se stessa, in nome di un'informazione veloce, superficiale e scandalistica, che troppo spesso sfocia nelle fake news. Che, a loro volta, probabilmente trovano un terreno fertile perché molte persone, invece di volersi informare davvero, si sentono più a loro agio col farsi cavalcare dall'onda della prossima emozione, che di statuto ogni volta cancella quella precedente, facendo della narrazione dell'attualità un eterno presente emotivo immerso nell'oblio.


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Qui sul blog de Il Tuo Biografo di fotografia parliamo spesso: se vuoi sfogliare tutti gli articoli scritti al

riguardo, clicca qui.


L'articolo che hai appena letto fa parte di una serie che Il Tuo Biografo sta dedicando alla storia della fotografia e del fotogiornalismo. Qui, per esempio, ho raccontato come nell'Ottocento nacque lo strumento portentoso della fotografia, mentre invece qui ho spiegato in che modo questa scoperta tecnologica sia diventata - prima negli USA e poi nel resto del mondo - un mezzo d'informazione per eccellenza. Più di ogni altro evento la tragicità della guerra ha trovato la sua massima rappresentazione nella fotografia, forse perché le parole a volte non bastano a spiegare pienamente l'orrore, e di questo ho parlato in questo articolo. Lo sapeva bene il grande fotografo di guerra Robert Capa, di cui qui ho raccontato la breve ma intensa biografia. La guerra può lasciare segni profondi sul corpo e sull'anima di chi l'ha conosciuta da vicino: lo spiega bene il progetto fotografico di David Jay, di cui ho parlato qui.


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Al web piace correre veloce, commuoversi e poi passare oltre, per poi tornare a ripetersi senza porsi domande. Del mondo di Internet amo molte cose, ma non questa: e infatti a questo argomento, ma in particolare al fenomeno delle fake news, ho dedicato una riflessione approfondita; che naturalmente ho svolto a modo mio, cioè prendendo ispirazione da un bellissimo racconto di Franz Kafka. Se vuoi leggerlo clicca qui.

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